Da un racconto tratto da "La strada di San Giovanni", il libro pubblicato postumo nel 1990.
L'ubagu. Nei dialetti del Ponente Ligure indica un luogo selvatico, nascosto, esposto a settentrione, contrapposto alla luce e alla solarità del luogo "aprico".
Ecco la descrizione che ne dà Italo Calvino (1923 – 1985) nel racconto "Dall'opaco", tratto da "La strada di San Giovanni", il libro pubblicato postumo nel 1990.
Chiamasi «opaco», - nel dialetto: «ubagu», - la località dove il sole non batte, - in buona lingua, secondo una più ricercata locuzione: «a bacìo»; - mentre è detta «a solatìo», o «aprico», — «abrigu», nel dialetto, - la località soleggiata. Essendo il mondo che sto descrivendo una sorta d'anfiteatro concavo a mezzogiorno e non essendo in esso compresa la faccia convessa dell'anfiteatro, presumibilmente rivolta a mezzanotte, vi si riscontra di conseguenza l'estrema rarità dell'opaco e la più ampia estensione d'aprico.
Fin qui una definizione quasi da dizionario, ma poi continua:
Solo al fondo dei torrenti irti di canne dal frusciare cartaceo, o nelle valli che s'inarcano a gomito, o dietro i cocuzzoli protuberanti sui poggi, e più indietro nel succedersi di contrafforti della catena montagnosa parallela alla costa, si dà quell'incupirsi del verde, quell'affiorare di rocce dalla terra dilavata, quella vicinanza del freddo che sale da sottoterra e lontananza non solo dal mare invisibile ma anche dal feroce azzurro del cielo incombente, quel senso d'un misterioso confine che separa dal mondo aperto ed estraneo, che è il senso d'essere entrati «int'ubagu», nell'opaco rovescio del mondo di modo che potrei definire l'«ubagu» come annuncio che il mondo che sto descrivendo ha un rovescio, una possibilità di trovarmi diversamente disposto e orientato, in un diverso rapporto col corso del sole e le dimensioni dello spazio infinito, segno che il mondo presuppone un resto del mondo, al di là della barriera di montagne che si succedono alle mie spalle, un mondo che si prolunga nell'opaco con paesi e città e altipiani e corsi d'acqua e paludi, con catene di montagne che celano acrocori coperti di nebbia, sento questo rovescio del mondo nascosto al di là dello spessore profondo di terra e di roccia, ed è già la vertigine che romba al mio orecchio e mi spinge verso l'altrove.
E andando oltre:
E anche a considerare immobile l'osservatore come in principio, la sua situazione rispetto all'opaco e all'aprico resterà controversa, perché quel me stesso rivolto verso l'aprico è il lato opaco che vede d'ogni ponte albero tetto, mentre è in pieno sole il muro o pendio al quale io volto le spalle, il muro fiorito di buganvillea, il pendio dove crescono cespi di euforbie, la siepe di fichiturchi, la spalliera di capperi ma non è questo che conta perché ammesso che io stia sempre guardando verso lo sbocco d'una qualsiasi vallata e abbia alle spalle il torrente scosceso ed ombroso, nulla prova che io sia sul punto d'avanzare sempre più allo scoperto anziché indietreggiare verso il fondovalle, perciò è giusto dire che il me stesso rivolto verso l'aprico è pure un me stesso che si ritrae nell'opaco e se partendo da quella posizione iniziale considero le fasi successive dello stesso me stesso, ogni passo in avanti può essere pure un ritrarsi, la linea che traccio s'avvolge sempre più nell'opaco, ed è inutile che cerchi di ricordare a che punto sono entrato nell'ombra, già c'ero fin dal principio, è inutile che cerchi in fondo all'opaco uno sbocco all'opaco, ora so che il solo mondo che esiste è l'opaco e l'aprico ne è solo il rovescio, l'aprico che opacamente si sforza di moltiplicare se stesso ma moltiplica solo il rovescio del proprio rovescio.
E infine:
«D'int'ubagu», dal fondo dell'opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d'un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell'io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l'io che serve solo perché il mondo riceva continuamente notizie dell'esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c'è.